LA GRANDE REGGIO.
Economia e Società negli anni ’50 e ’60.
di Filippo Diano
di Filippo Diano
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Filippo Diano, giornalista, ha lavorato a Reggio Calabria per oltre trent’anni come collaboratore prima, e poi come corrispondente – dal 2002 al 2020 – dell’Agenzia ANSA. Un impegno iniziato con l’assassinio dell’ex Presidente della Ferrovie dello Stato, Lodovico Ligato, e proseguito fino al 30 giugno 2020, data del pensionamento. In verità, senza impegno professionale ci sono rimasto pochissimi mesi e da poche settimane sono ‘tornato in campo con l’Agi, l’Agenzia Italia, grazie alla stima dei colleghi della redazione di Catanzaro. Oltre che per l’Ansa, ho scritto per il quotidiano ‘Il Giorno’, con Enzo Catania direttore responsabile e L’Ora di Palermo, direttore Tito Cortese, trattando di tutto (giudiziaria, costume, politica), obbedendo esclusivamente a due valori trasmessimi da mio padre: libertà e dignità. Che significano rispetto per se stessi e per la persona di cui scrivi, pur avendo diversità di vedute e di comportamenti. La premessa è stata d’obbligo poiché in tutti questi anni è emersa una crescente ‘interferenza’( o afferenza?) tra pezzi del giornalismo nazionale e settori della magistratura che non sempre ha giovato all’amministrazione della Giustizia e alla credibilità dell’informazione. Intendiamoci, il mestiere del giornalista è cercare le notizie, verificarle ed anche esprimere un’opinione. E serve anche parlare con il ‘nemico’, come racconta Eugenio Scalfari all’Espresso del 18 aprile 2021, a corredo di un servizio sul tentato ‘Golpe De Lorenzo’.
La Grande Reggio. Economia e società negli anni '50 e '60.
La crisi dell’Economia di un territorio è un composito di fattori plurimi che interagisce con altri ambiti (politici e amministrativi soprattutto), utili per costruire un sistema di riferimento più vasto e così individuare più nitidamente le cause, le opportunità e/o le mancate potenziali prospettive di ripresa.
La crisi economica e, soprattutto sociale, che mina il territorio di Reggio Calabria dal 1950 in poi – questo scritto si ferma agli albori degli anni ’70 - è caratterizzata da una brusca e irreversibile caduta dei livelli di attività agricole - databile alla metà degli anni ’60 - concentrate soprattutto nell’agrumicoltura e nei servizi di commercializzazione dei prodotti, che trascina nel fallimento un indotto costituito soprattutto dalle attività legnamifere legate alla produzione di imballaggi e doghe. Il faggio e il castagno aspromontano fornivano le segherie di Catona e Gallico per la produzione di contenitori (i famosi plotò) adatti a trasportare gli agrumi verso i mercati del nord Italia.
Un sistema che oggi potremmo definire “circolare e auto-rigenerativo” che, purtroppo, iniziò a perdere rapidamente terreno per il conservatorismo egoista del blocco agrario, chiuso nel promuovere gli investimenti per le migliorie dei terreni e l’utilizzo di nuovi macchinari, per la scarsa lungimiranza delle classi politiche dirigenti, calabresi e nazionali, rispetto al potenziale di sviluppo derivante da un’agrumicoltura di qualità, dove trova spazio ancora oggi per le sue peculiarità il bergamotteto e il mandarineto.
Tale premessa, volutamente generalizzata per lasciare più spazio all’approfondimento successivo con l’ausilio di qualche indicatore statistico, trova però conferma nella ripresa vertiginosa dell’emigrazione della popolazione reggina nel periodo considerato verso le grandi fabbriche del nord del Paese, un ‘esproprio demografico di Stato’ delle forze del lavoro più giovani e valide, e anche più specializzate, come gli esperti di potatura e di innesto, che oggi si contano sulle dita di una mano.
La ricchezza nazionale (il famigerato Pil), dal 1946 al 1960, espressa in termini monetari costanti, si era intanto più che raddoppiata trainata dall’industria, e così pure il reddito pro-capite, con conseguente miglioramento del tenore di vita, qualitativo e quantitativo, il miglioramento qualitativo dei consumi di massa per l’immissione di quantità sempre maggiori di danaro nel circuito economico.
Al confortante quadro della situazione economica italiana nel periodo preso in esame (dati tratti dagli Annali della Camera di Commercio) è mancato però sostanzialmente l’apporto dell’agricoltura.
In base ai dati relativi al periodo dal 1951 al 1959, si rileva infatti, che mentre il reddito industriale e quello delle attività terziarie è costantemente e progressivamente in crescita, passando dal 57,7% su base nazionale nel 1951, al 61,3% del reddito prodotto nel 1959, di converso, invece, il reddito prodotto dal settore agricolo, nello stesso periodo considerato (1951/1959), decresce dal 26,5% al 19%.
All’interno del settore agricolo – sempre nel decennio considerato – emerge un dato in controtendenza (fino ai primi anni ’60) costituito dall’agrumicoltura…”che investe interessi nazionali dell’ordine di centinaia di miliardi di lire, oltre che rilevanti interessi privati di vaste categorie di produttori, commercianti e lavoratori che, con le loro famiglie, valutabili a centinaia di migliaia, trovano nell’attività agrumaria una grande fonte di ricchezza e di benessere e, quindi, ragione di vita”.
Chi ha buona memoria ricorda come Reggio Calabria, negli anni ’60, sia stata meta importante per l’economia nazionale agrumicola, e sede di un’importante Fiera internazionale cui partecipavano operatori del settore di tutto il Mediterraneo e, soprattutto, i costruttori di mezzi agricoli tra i più moderni con sede nelle Marche, Emilia Romagna, Veneto e Piemonte.
In quel periodo (anni ’50-’60), la produzione agrumicola italiana, complessivamente considerata, ha un valore che si può approssimativamente calcolare “intorno agli 80 miliardi di lire, e costituisce oltre il 10% della produzione frutticola nazionale, circa il 15% del valore della produzione agricola meridionale, e quasi il 4% del complessivo valore della produzione agricola italiana”.
Questo ragguardevole risultato è frutto di una vera e propria corsa agli investimenti agrumari: “In Italia, infatti, la superficie destinata ad agrumeto a coltura specializzata, che nel 1945 era poco più di 55mila ettari, nel 1954 era già balzata a 77mila, fino a raggiungere gli 80mila nel 1955. Nell’arco di dieci anni, dunque, l’incremento dei terreni agricoli destinato all’agrumicoltura è quindi di oltre 25mila ettari, che in un decennio costituiscono una cifra veramente considerevole”.
Di questi veloci processi di crescita del settore agrumicolo, Reggio Calabria è interessata per l’intero territorio comunale, da Catona a Bocale, su cui insistono numerose attività produttive e commerciali orientate alla valorizzazione degli agrumi: dalla tavola, alla produzione di raffinate essenze e di succhi.
Cosa raccontano i dati economici di quel periodo?
Al 30 giugno del 1948, l’Albo degli esportatori di prodotti ortofrutticoli agrumari, di essenze agrumarie e fiori della Camera di Commercio, Industria e Agricoltura di Reggio Calabria, annoverava circa 70 esportatori, tutti residenti ed operanti nel comune di Reggio Calabria, con una buona percentuale a Catona e Gallico.
Si tratta di famiglie di grandi possidenti terrieri, spesso impegnati direttamente come trasformatori, e i grandi e piccoli commercianti.
Tra i più noti operatori del settore agrumicolo negli anni ’50 e ’60, si annoverano le famiglie Rognetta, Correale Santacroce, Capua, Milea, Marcianò, Scopelliti, Saifa srl, Sacarc,Violante, Postorino, Malara, Crisalli, Marra, Gangemi, De Marzo, Guarna, Vitale, Trapani Lombardo, Siles, Aricò, Falcone,Caracciolo, Pizzimenti, Romeo, Vilardi, ed altri ancora di dimensioni minori, le cui attività, stagionalmente, direttamente e con l’indotto, coinvolgevano almeno diecimila addetti: dalla cura delle proprietà (potatura, distribuzione irrigua, colonia, raccolta del prodotto etc…), alle lavorazioni nei magazzini e alla spedizioni.
Lo Stato, bisogna ricordare, aveva anche istituito a supporto delle migliorie produttive ai fini dell’estrazione delle essenze agrumarie, la Stazione Sperimentale delle Essenze, un laboratorio chimico attrezzato per valutare le gradazioni alcoliche e aromatiche, soprattutto del bergamotto, richiestissimo allora, come oggi, destinato alla profumeria e al beauty. La Stazione Sperimentale, dunque, costituiva un riferimento scientifico nazionale nel settore delle essenze agrumicole, un punto di forza a sostegno dei nostri produttori e commercianti, purtroppo chiusa non solo per mancanza di….”commesse” ma, soprattutto, per l’incuria della classe politica nazionale che già privilegiava l’agricoltura padana, e per lo scarso “potere di contrattazione” della politica reggina.
I processi di lavorazione.
Gli agrumi, con l’esclusione delle essenze, venivano immessi sui mercati del nord con il ricorso a due distinti sistemi di stivaggio e trasporto: su rotaia, soprattutto il così detto rinfuso, perché di minore qualità, e su gommato.
Le Ferrovie dello Stato, soprattutto a Gallico e Catona, per soddisfare le esigenze degli operatori del settore, avevano predisposto anche appositi servizi dedicati all’esportazione. Al caricamento del prodotto sfuso provvedevano le ‘carovane’, gruppi di lavoratori associati che riempivano i carri ferroviari svuotando direttamente sul pavimento gli agrumi – arance e limoni soprattutto - di basso livello di qualità, con destinazione i Paesi dell’Est dove, è facile intuirlo, giungevano in pessime condizioni di conservazione. Una soluzione che non poteva durare a lungo, tant’è che quelle destinazioni “Oltrecortina” – si chiamavano così gli ex Paesi comunisti dell’Est europeo – scemarono in breve tempo.
Per i prodotti agrumicoli destinati al mercato nazionale – da Roma in su – il trasporto era affidato al gommato, più rapido e flessibile, grazie alla realizzazione dell’Autostrada del Sole, nel raggiungere i punti di scarico. Per i mercati interni, si sceglievano le tipologie agrumicole frutto di cultivar più attraenti e destinati alla tavola, come le arance ‘belladonna’, ‘tarocco’, ‘calabrese’, che da ottobre di ogni anno e fino al mese di giugno successivo, con l’aggiunta di produzioni di nicchia di grande qualità, come le arance della Vallata del Gallico e dell’alta Locride, monopolizzavano, con la Sicilia, i mercati del nord Italia.
Intorno alla produzione ed al commercio degli agrumi, pullulavano una miriade di aziende, molte a conduzione familiare, nel settore degli imballaggi. Aziende (segherie), dai dati depositati negli ‘Annali della Camera di Commercio di Reggio Calabria’, che impiegavano una media di dieci lavoratori. Dal taglio dei tronchi, dopo varie lavorazioni e affinature del legname, si arrivava all’imballaggio finale: dal ‘plotò’, dal bordo basso, destinato ad accogliere l’agrume di qualità che veniva impaccato, pezzo a pezzo, con carta velina da mani di espertissime donne, su cui era impresso il nome del proprietario del magazzino, alle cassette con il bordo più elevato, capaci di contenere fino a dieci chilogrammi di prodotto. Arance, limoni e mandarini, prima di essere avviati ai mercati, subivano una lavorazione in acqua tiepida, poi sollevati da una griglia dentata e avviati su spazzole a rulli, dove la buccia subiva una prima pulizia. Il passaggio finale del ciclo – ma non sempre – era riservato alla ‘lucidatura’ della buccia mediante l’uso di paraffine. Infine, gli agrumi finivano trasportati sopra una grande rete metallica dotata di vari fori, selettori che ne determinavano il così detto ‘calibro’, ovvero la circonferenza, anche ai fini della valutazione del prezzo finale.
A Catona e a Gallico, fino alla fine degli anni ’60, operavano nel settore degli imballaggi le famiglie Costantino, Lucisano, Russo, Surace, Musolino, Billa, Sidari, Postorino, Chirico, Cartella, Careri, Jannò, Cama, Pizzimenti. Il legname (faggio, ontano, castagno, pino etc..) era loro fornito dai proprietari dei boschi aspromontani, e il trasporto – dal dopoguerra alla fine degli anni ’50 – era affidato ai ‘carrai’, i proprietari di buoi da lavoro che tiravano i carri su cui venivano poggiati i pesanti tronchi, dal primo taglio, fino alla fornitura delle segherie a valle. Un’epopea destinata a finire con l’incalzare dell’automazione e dei trasporti su gommato (molti ‘carrai’ sono diventati proprietari di tir), così come la produzione su larga scala delle cassette di moplen, che ha inevitabilmente avuto il sopravvento sul legno perché meno costoso e più duraturo.
La crisi definitiva e la speculazione territoriale.
I terreni agricoli destinati alla coltivazione agrumicola nella periferia del territorio comunale, con la crisi dei mercati, accelerata anche dai nuovi ingressi nell’Europa comunitaria di Paesi come la Spagna e il Portogallo, e con il ricorso ‘furbesco’ di acquisti di essenze nei Paesi nordafricani e sudamericani da parte di operatori olandesi, tedeschi e francesi le cui agricolture hanno tutt’altri profili che l’agrumicoltura, sono stati ben presto diventate aree edificabili per interventi di necessità pubblica, o speculativa.
Il primo ‘assalto alla diligenza’, negli anni ’60, ha riguardato la zona sud cittadina – Sbarre e Gebbione – su cui insiste l’unica realtà industriale di un certo rilievo, le ex Omeca, oggi finita ai giapponesi (forse non tutti mali vengono per nuocere…) di Hitachi Rail, venduta dall’ex Finmeccanica nel momento in cui si stavano ridisegnando i sistemi di trasporto pubblico a livello europeo e mondiale per abbattere l’inquinamento nelle aree urbane!
Il quartiere del Gebbione, al confine con l’Aeroporto - già conosciuto come ‘l’orto di Reggio’ – nel 1960, in meno di un lustro, viene rivoltato con la realizzazione di centinaia di Case Popolari e di abitazioni in cooperativa. Il settore edile, letteralmente, esplode: dopo Sbarre e Gebbione, e la volta di Modena-Ciccarello, Archi Cep e, infine, Arghillà.
L’edilizia, dagli anni ’70 in poi, segna un capitolo nuovo nello sviluppo cittadino e ne caratterizza il profilo economico. Oltre le storiche famiglie reggine operanti nel settore (Cozzupoli, Giunta, Cassone, Pratticò, Zaffino, etc…), emergono nuove figure imprenditoriali: gli ex ‘cottimisti’ che diventano imprenditori in prima persona.
Reggio Calabria, però, è un Comune restio a governare efficacemente il territorio e il “lassez-faire” che ne deriva, peraltro segnato da con centinaia di contenziosi giudiziari dinanzi agli ex Pretori per violazione delle regole urbanistiche, produce storture e abusi che deturpano luoghi significativi del territorio, come la Vallata del Calopinace, e che testimoniano la famelicità della speculazione.